And
he carries the reminders
of
ev'ry glove that layed him down
or
cut him till he cried out
In
his anger and his shame
"I am leaving, I am leaving"
but
the fighter still remains(The
Boxer)
(E lui
porta con sé i ricordi
di ogni guantone che l’ha buttato al
tappeto
o ferito fino a farlo gridare
con la sua rabbia e la
sua vergogna
"Adesso abbandono, abbandono!"
ma il
lottatore rimane ancora lì)
Mi piace ascoltare la cronaca di una partita quando la seconda
voce è quella di Lele Adani.
Apprezzo la competenza di un ex giocatore scevra dalla banalità o
dai timori reverenziali spesso caratteristici di altri suoi colleghi.
Non cammina sulle uova come Beppe Bergomi che, nell'utopico
tentativo paraveltroniano di scontentare nessuno, riesce a
scontentare tutti. Non si inerpica lungo le disquisizioni caliginose
di Ilario Castagner e non si accoda tautologicamente alla prima voce
come Luca Marchegiani.
Lele Adani interloquisce con cognizione di causa palesando spesso
una conoscenza superiore dell'argomento rispetto al preconcetto
indicante un ex calciatore come un incompetente globale.
Secondo me a Lele Adani piace il calcio. O almeno, così pare
lasciar trasparire.
Me lo immagino mentre si ritrova con gli amici ai giardinetti per
tirare quattro calci al pallone, oppure ritardare di cinque minuti
l'uscita dal bar, dopo aver pagato il caffè, per scoprire se
quell'azione baluginante dallo schermo finirà con un gol o si
spegnerà mestamente contro i tabelloni pubblicitari.
Trovo perfino gradevole quel suo accento che odora di provincia
rurale e di nebbia mattutina, la cui cadenza dipinge
inconsapevolmente il profilo di una città sospesa fra passato,
presente e incerto futuro, fra una campagna semispogliata e capannoni
industriali simili a astronavi abbandonate da antiche civiltà.
C'è però un'associazione mentale inconscia che mi porta a non
cambiare subito canale quando mi imbatto in una telecronaca di Lele
Adani.
Perché, bruscamente, davanti agli occhi prende vita un Lele Adani
di dieci anni più giovane, immobile, iconico, con le braccia levate
in alto e le pupille rovesciate al cielo, cristallizzato in quel
momento rarefatto come un respiro, un attimo prima di venire sommerso
dagli abbracci dei compagni.
E ripenso alla partita.
A “Quella” partita.
Mi ha sempre reso scettica l'esaltazione della “Sconfitta”,
soprattutto riferita alla propria squadra.
Perdere è irritante,
sia in prima che per interposta persona, per questo guardo con
diffidenza all'entusiastica esaltazione dell'epica degli sconfitti.
Mi è sempre parso di scorgervi un'indulgenza autoconsolatoria volta
a condonare le mancanze rispetto al vincente.
L'Inter per me è
“Cosa viva” e per coloro che amo desidero sempre il meglio. E il
meglio, solitamente, si incarna nella vittoria.
Tendo quindi ad
allontanare le memorie dei fallimenti per rivolgermi verso il piacere
delle conquiste.
Eppure esistono alcune sconfitte che, nel
modo in cui sono state combattute, raggiungono la dignità di una
vittoria.
Il ritorno di Inter-Juve semifinale di Coppa Italia,
anno 2004, è una di queste.
L'andata a Torino era terminata 2-2 e, sull'appressarsi del
ritorno, sono accaduti vari eventi che forniscono ulteriori elementi
bellici ad un incontro già ammantato di rivalità. La Juve in
campionato perde a Roma inaspettatamente e vede il Milan arroccarsi
sulla cima della classifica, mentre l'Inter, ancora sbigottita per
l'eliminazione in Champions subita a conclusione del 2003, veleggia
senza più l'obiettivo scudetto.
La Coppa Italia, competizione
sovente dimessa, assume la valenza di trofeo che può migliorare una
mediocre stagione.
Nessuna delle due dunque ha intenzione di recedere dall'intento di
pervenire in finale.
San Siro, quella sera, indossa la veste migliore, quella
riservata alle partite di cartello in campionato.
Oltre 60.000
spettatori, in maggioranza interisti, sebbene la presenza bianconera
sia rilevante, come accade in qualsiasi stadio d'Italia la Juve si
trovi ad transitare.
Inter-Juve per gli interisti è La
Partita, quella dove l'odio sportivo può fluire senza argini e i
rancori pulsano come ferite fresche.
La Juventus, emanazione
della “reale” monarchia italiana, incarna l'alterigia
dell'autorità e arroga su di sé l'odio misto al timore che si
riserva sempre alle manifestazioni del potere.
Non possiede la
storia, a volte epica e a volte arruffona, del Milan, la rivale di un
derby in cui i tifosi, come in un gioco di specchi, reputano l'una il
Doppelgänger dell'altra, quasi a sancire un
inconsapevole legame sempre negato e aborrito.
La partita con la Juve, per ogni interista, è quella
che dovrebbe essere affrontata come una battaglia, fino all'ultima
stilla di sudore. Le aspirazioni dei tifosi però raramente
coincidono con le prestazioni dei calciatori in campo, generando
quindi altre frustrazioni oltre a quelle subite per lo spurio
risultato sportivo.
La designazione arbitrale, Pellegrino da Barcellona
Pozzo di Gotto, provoca malumori dalla parte interista , a cui
risponde un distaccato sarcasmo da parte juventina. “I consueti
piagnistei degli interisti”.
Anni dopo l'arbitro Pellegrino sarebbe andato
ingrossare l'organico societario del Messina, società satellite
dell'universo moggiano per poi scomparire completamente dopo
l'indesiderata notorietà riacquistata durante lo scandalo
Calciopoli.
L'Inter, allenata da Zaccheroni, aggredisce
l'incontro quasi a voler assecondare i desideri dei sostenitori.
Poco oltre il quinto minuto Adriano, non ancora
risucchiato dall'onda suoi demoni, accoglie un lancio di Stankovic,
si svincola da Le Grottaglie e, disorientando il portiere Chimenti,
colloca il pallone sul fondo della rete.
I tifosi erompono in un urlo di gioia.
Per il gol, segnato da un giocatore che sentono come
loro e che potrebbe rappresentare la rinascita e la nemesi di quel
Ronaldo la cui dipartita li ha feriti con gli spasimi che solo i
grandi amori portano in sé.
Per essere stato segnato proprio alla Juve, in una
competizione improvvisamente scopertasi fondamentale.
E per l'atteggiamento mentale della squadra,
finalmente pugnace e battagliero, a seguito di varie esibizioni vacue
al limite dell'inconsistenza.
Una manciata di minuti più tardi Cannavaro deve
uscire a causa di un fastidio muscolare e in questo infortuno sembra
palesarsi un proposito del destino.
In una serata come questa la presenza di ominicchi è
mal sopportata.
L'ingresso di Van Der Meyde all'ala destra spinge
Helveg qualche metro indietro sulla linea dei terzini, fra i primi
borbottii degli astanti che valutano con preoccupazione una linea
difensiva composta dal laterale danese ex milanista, pupillo di
Zaccheroni ,raramente convincente in nerazzurro e Lele Adani,
difensore italianissimo nella sua interpretazione del ruolo.
Eppure, nemmeno fosse stato tutto pianificato da uno
sceneggiatore particolarmente fantasioso, ogni tassello inizia a
posizionarsi esattamente al posto giusto e i malumori per alcune
decisioni arbitrali valutate negativamente dai nerazzurri fino alla
repentina scossa seguita al gol del pareggio segnato da Tudor
divengono il proscenio per la messa in scena della partita sognata da
ogni tifoso nerazzurro.
Gli uomini in campo non protestano istericamente,
come avvenuto troppo sovente in passato e non cedono allo sconforto
per la percezione di uno sbilanciato metro arbitrale.
Reagiscono
moltiplicando le energie e incarnando sorprendentemente il desiderio
di ogni appassionato: vederli lottare come tifosi.
Dalla contesa sboccia l'impensabile: i topini di
Cenerentola si trasformano in fieri destrieri dalla nivea criniera e
la classe operaia va in paradiso.
Helveg, lo scandinavo sfuggente e rigido come il suo
idioma senza vocali e Adani, il discreto difensore di provincia dai
lineamenti di indiano metropolitano si elevano a guida per i
compagni, comandandoli con adamantina fermezza.
Lele Adani diviene l'epicentro stesso della difesa,
sorretto dalla stessa fideistica determinazione che muove il bambino
più gracile ritrovatosi a protegge la bandiera della sua compagine
quando i suoi amici più robusti e atletici son stati eliminati.
Helveg incassa la testa fra le spalle e corre,
trasponendosi da una fascia all'altra e strappando palloni dalle
gambe avversarie. Si precipita in avanti ad assistere gli attacchi
caotici dei compagni per poi arretrare repentinamente in soccorso
delle mancanze della difesa.
Quando Cordoba, in balia della sua veemenza, viene
forzato ad accomiatarsi anzitempo con un cartellino rosso, Zaccheroni
può mutare nuovamente le sembianze della squadra appoggiandosi
all'abnegazione del suo pupillo.
Zanetti scala come terzino ed Helveg, per la prima
volta in carriera, si separa dalla consueta quotidianità della
fascia per migrare verso il centro della difesa, appressandosi a Lele
Adani, perchè la solitudine dell'area di rigore è troppo gravosa
perfino per lui, questa sera.
Nel Vangelo è narrata una parabola relativa a un
vignaiolo, accordatosi con alcuni lavoranti per un soldo di paga in
cambio dell'attività fra i filari.
Durante il trascorrere della
giornata si imbatte in altri uomini desiderosi di lavorare, li
conduce man mano alla sua vigna finchè, al tramonto, a ognuno di
loro riserva lo stesso pagamento.
Un soldo.
Per quelli che hanno lavorato dal mattino, per quelli
che hanno faticato sotto il sole del pomeriggio e per gli ultimi
affaccendati nell'ultima ora prima del crepuscolo.
Rammentando questa partita il pensiero mi va a questa
parabola e ai vari giocatori che hanno vestito la casacca nerazzurra
per tanti anni, senza che la loro reiterata presenza abbia depositato
poco più di un pallido alone nella mia memoria.
Beppe Bergomi ha militato nell'Inter per oltre
vent'anni, avviandosi nelle giovanili e terminando la carriera come
capitano eppure, per me, una partita come quella di Lele Adani ed
Helveg quella sera non l'ha mai giocata.
Mi dispiace Zio: la riconoscenza non è di questo
mondo, lo sai anche tu.
Quando Del Piero, il 10 juventino che ha nei piedi
l'apogeo del suo talento, scaglia di testa in rete la palla del
vantaggio, sfruttando un corner di Miccoli, molti interisti si
convincono che gli intenti del Fato perseguano una costernata
monotonia.
La Juve stessa, memore delle situazioni passate, si
adagia sulla consapevolezza del ritenersi sempre la più forte e
attende la capitolazione di un'Inter fiaccata nel morale e prostrata
dalla fatica.
I nerazzurri convogliano le forze per scagliarsi
all'attacco, ma i bianconeri palesano una rocciosa saldezza,
coadiuvati involontariamente da un arbitraggio che dimostra di non
essere in grado di gestire le emozioni che attraversano il campo come
scariche elettriche durante un temporale.
I 5 minuti di recupero paiono il proemio
dell'affermazione juventina, corredata dalle cicliche polemiche sulla
sua ascendenza sulla classe arbitrale.
Ogni innamorato dei colori neroazzurri indugia lungo
gli attimi che lo separano dal fischio finale, acquiescente verso una
sconfitta che pare abbozzarsi all'estremità di quella partita.
Si consola persuadendosi che i giocatori hanno
realmente dato tutto e non vi siano possibilità di sfuggire alle
disposizioni del Destino.
Lele Adani però sente di non aver dato tutto.
Percepisce in sè ancora una stilla di vigore e di volerlo utilizzare
fino all'acme delle sue capacità.
Lele Adani erompe imprevedibilmente dalla
difesa, come un soldato da una fangosa trincea, animato dalla
rivelazione di avere più niente da perdere e nulla da proteggere e
“When you ain't got nothing, you got nothing to lose”.
Sull'increspatura dell'ultimo secondo della partita, Lele Adani
scaraventa nella porta di Chimenti il pallone appena ribattuto ad
Emre.
San Siro esplode nell'urlo selvaggio di migliaia di voci congiunte
in una sola e Lele Adani leva le braccia al cielo, quasi a voler
offrire quel grido a qualche lontana divinità.
Chissà se ogni tanto anche Lele Adani ricorda quella partita...
***
Poichè le partite “Vere” non sono film hollywodiani,
questo incontro terminò con il passaggio del turno della juve, dopo
il pareggio ai supplementari e lo sbaglio ai rigori di Christian
Vieri.
Sì, lo stesso Vieri che, anni dopo, si sarebbe qualificato
come “Da sempre tifoso della juve”.
Non temere Bobo, ce ne eravamo accorti anche noi quando giocavi
nell'Inter