sabato 24 gennaio 2015

Il Panchinaro, Il Ciccione e lo Sconosciuto...


Questa è una storia che sa di acqua di fuoco e polvere da sparo... ferri fumanti e ferro battutto.

E' la storia del mercato del gennaio 2015 dell'Inter Far West Football Club... una storia di cowboy in cerca di rivalsa e di un uomo che li ha stanati, che chiameremo "il Segugio".

Il Panchinaro ha il capello corto e sul biondo, l'occhio chiaro... cattiveria sanguigna e lineamenti scolpiti... per questo è detto anche "il Crucco"...

Il Ciccione è un piccoletto, con i muscoli di cemento armato, la rapidità di un Jerboa ed un sinistro al veleno del sonagli... Va in giro con un vessillo con un aquila a due teste... per questo lo chiamano anche "Shqipëtar"

Lo Sconosciuto è di origini slave, ne parlano tutti un gran bene. Dicono che abbia talento, dicono che abbia carattere, dicono che abbia tutto... ma nessuno ne è certo... per questo lo chiamano "L'Azzardo"

Il boss del Segugio è Er McToy, un pezzo grosso della comunicazione nel Far West, sempre sull'orlo del fallimento... il suo braccio destro è Mr. Robert Lefthands, uomo con più stile e classe che sciarpe e di sciarpe ne ha diligenze piene.

Al Segugio hanno dato un mandato: " I dollari delle taglie sono questi, ma noi vogliamo quegli uomini... non ci interessa come. Vai e prendili "
Ed il Segugio non se lo è fatto dire due volte ed è partito... girando in lungo ed in largo lo sterminato West.

Non era una missione facile... gli sgherri dei concorrenti lo irridevano: "ah ah ah, ma dove vai con quel revolver scarico? Prenderai solo beffe in faccia." (sputo in terra)

Lui non ha mollato il colpo, anche se all'inizio ha dovuto masticare tabacco amarissimo, quando Arjen Cercee, con un sorriso beffardo, si è preso gioco di lui per poi entrare nella fottuttissima gang con più prostitute al mondo.

Non ha mollato il colpo, quando gli informatori subliminali della gang più infame, quella della vecchia fottuta signora, andavano in giro dicendo che era tutta roba loro, erano tutti uomini loro.

Ha proseguito dritto per la sua strada, il buon Segugio... ed andato prima a stanare Il Panchinaro, della gang dei gunners, quasi irridendo il vecchio gallo ... Poi si è avventurato nella terra dei bavaresi, non era facile, gente con una sola parola, difficile da trattare... se non fosse che anche lui è di una sola parola... ed è stato cosi che Il Ciccione non ha avuto dubbi e si è messo in viaggio con lui...

Ma mancava qualcosa, mancava la puntata al buio, quella che da consistenza alla pasta di cui sei fatto... ed è stato cosi che è andato a prendere lo Sconosciuto.

Dicono che abbia talento, dicono che abbia carattere, dicono che abbia tutto... ma nessuno ne è certo... per questo lo chiamano "L'Azzardo"

Quello che si doveva fare il Segugio lo ha fatto... Il Panchinaro, Il Ciccione e Lo Sconosciuto sono nella Beneamata gang, nelle mani di Mr. Robert Lefthands e del suo fido secondo sud americano.

Ed ora... la parola al campo.


- Charms -

lunedì 19 gennaio 2015

Empoli - Inter 0 a 0 e la storia del cavallino.

La gara di Empoli è stata la più brutta tra quelle giocate da quando (ri)c'è Roberto Mancini come tecnico della squadra.

E' stata una partita in cui non abbiamo mai avuto il comando del gioco, non abbiamo mai dato la sensazione di poter far male ed anzi abbiamo rischiato grosso. Si perchè l'Empoli invece è stato perfettamente complementare a tutte queste carenze. Ha comandato il gioco e dato la sensazione di poter far male, per tutti i 90 minuti.
Non ha calato di un colpo il suo ritmo gara e pressing, creando davvero imbarazzo nella costruzione del gioco all'Inter.

Questo dopo un trend in crescendo delle prestazioni che ci aveva fatto credere che sul campo empolese (dove è caduta la Lazio) potessimo avere vita più facile. Invece abbiamo fatto diversi passi indietro.

Brutta gara (nell'ottica Interista), probabilmente da perdere, capita. Una di quelle partite che le squadre con più qualità vincono lo stesso, di forza, senza merito, dando fondo alla compattezza di intenti ed appunto la superiore qualità, colpendo anche nell'unica occasione capitata.

Ma noi non siamo ancora a questo livello. Lo puntiamo, ci stiamo lavorando, ma è ancora distante.

Per dare idea di come penso sia il livello dell'Inter di adesso userò una frase di sua immensità Josè Mourinho.

L'Inter di adesso è un cavallino,
“è un cavallino che ha bisogno di latte e deve imparare a saltare” (cit)

#ForzaInter #Amala

- Charms -



lunedì 5 gennaio 2015

Perchè "juventus - Inter" è "juventus - Inter"

juventus* - Inter, forse ancor più di Inter - juventus, è la partita che io (e credo buona parte degli Interisti) sento di più.

Un altra volta parlerò di aneddoti, episodi, serie A e serie B, gesta più o meno edificanti... ma questa volta, visto che è la prima, voglio invece spaziare nell'aspetto storico-filosofico del confronto.

E' cosi complesso e difficile sviluppare tutti i concetti racchiusi nella frase sopra, che non posso fare a meno di utilizzare, per esporli nella loro massima espressione, due pezzi di un vero maestro della filosofia, il mai dimenticato ed indimenticabile professor Elio Matassi.

Buona lettura.

  

- Inter e Juventus. Profanazione e secolarizzazione - 

La genealogia dei concetti, la storia del calcio e, più in particolare, quella di due squadre alternative come Inter e Juventus sono strettamente intrecciate. Il punto di partenza di questo intreccio concettuale si può ritrovare nell’interconnessione tra dimensione giocosa e dimensione sacrale.

E’ indispensabile tener presente che la maggior parte dei giochi conosciuti e, dunque, anche il calcio, deriva da antiche cerimonie sacre, da rituali e pratiche divinatorie che un tempo erano di competenza dell’ambito religioso. Per esempio, alle origini, il girotondo era un semplice rito matrimoniale, giocare con la palla, invece, rappresentava la competizione degli dei per il possesso del sole, mentre i giochi d’azzardo derivano da pratiche oracolari e la scacchiera rappresentava uno strumento di divinazione.

L’interpretazione più sottile della relazione tra giocosità e ritualità è stata compiuta da Émile Benveniste, che ha chiarito come il gioco, pur provenendo dalla sfera sacra ne costituisca in qualche misura anche il capovolgimento. Se la potenza dell’atto sacro risiede nel coniugare mito narrante e rito riproducente, il gioco lacera questa unità: come ludus, o gioco di azione, esso lascia cadere il mito conservando il rito; come Jocus, invece, ossia come gioco di parole, cancellando il rito lascia sopravvivere il mito. Con Benveniste: “Se il sacro si può definire attraverso l’unità sostanziale del mito e del rito, potremmo dire che si ha gioco quando soltanto una metà dell’operazione sacra viene compiuta, traducendo solo il mito in parole e solo il rito in azioni.”

Da questa polarità concettuale Giorgio Agamben mutua il concetto di ‘profanazione’: l’atto della profanazione implica il passaggio da una forma di credenza, ormai percepita come falsa e oppressiva, a una forma di negligenza che rende invece più autentica la credenza stessa.

A questo punto dell’argomentazione di Agamben entra in scena una seconda polarità concettuale, quella fra secolarizzazione e profanazione. Se la secolarizzazione è “una forma di rimozione che lascia intatte le forze”, la profanazione, invece, “implica una neutralizzazione di ciò che profana”. Si tratta, in entrambi i casi, di un’operazione politica: mentre la secolarizzazione ha a che fare con l’esercizio del potere, la profanazione, disattivandone i dispositivi, restituisce all’uso comune gli spazi che il potere aveva di fatto confiscato.

Secolarizzazione e profanazione sono una coppia concettuale che può trovare compiutamente un terreno d’applicazione nelle due squadre alternative per eccellenza: la Juventus sta alla secolarizzazione come l’Inter alla profanazione.

Se la secolarizzazione distrugge l’essenza stessa del gioco, appiattendosi nell’omogeneità più radicale, la profanazione, diventando il compito ‘politico’ del nostro tempo, restituisce dignità al calcio come ad ogni altra dimensione competitiva e innocente. Se le epoche della Juventus rappresentano la sanzione estrema della secolarizzazione, le epoche dell’Inter, molto più circoscritte ma intense e pregnanti, definiscono la profanazione.

Il quinquennio interista (2006-2010) ha segnato il momento culminante della profanazione, scandito, non a caso, dalle lamentazioni di tutti i nostalgici della secolarizzazione, che sono tornati d’attualità negli ultimi due anni con la ripresa juventina.

Ma gli araldi della nuova profanazione sono già all’opera….



- Il potere e la gloria. Juventus e Inter -

Il “potere” non è un’espressione necessariamente dispregiativa; la assumo, infatti, nello stesso significato di una delle opere capitali del Novecento, Massa e potere di Elias Canetti: “potere” come volontà di affermazione, di autoaffermazione contro tutto e tutti, che nasce “dal basso” e non come forma di governo che cade “dall’alto”.

Leggo, invece, la “gloria” nello stesso significato attribuito da Emanuele Severino nel suo scritto del 2001, La gloria, dove si recita: “Essere la Gloria significa essere la costellazione infinita dei gloriosi”; e poco prima: “il linguaggio del mortale sente nel “glo-rioso” l’“acclam-ato”, il “chiam-ato” che è posto sul piedistallo dalle voci acclamanti della folla di chi sta al di sotto” (La gloria, Adelphi, Milano, pp. 155-56, passim).

Mentre il potere si afferma e si esercita in primo luogo contro gli altri, la gloria rappresenta una dimensione di compimento che coinvolge in primo luogo noi stessi, una sfida e una competizione non orizzontale, ma verticale, che riguarda lo stesso protagonista di tale compimento.
 
Si tratta di due rappresentazioni concettuali e filosofiche che ritrovano, a mio avviso, un’esemplificazione compiuta in due squadre di calcio: il potere sta' alla Juventus come la gloria all’Inter.

La Juventus, infatti, è la squadra italiana con il maggior numero di scudetti (per l’esattezza 28) e anche quella che si avvale del maggior numero di tifosi, circa 14 milioni. Molti sostengono che la Juventus rappresenti compiutamente il sistema-Italia, con i suoi pregi e i suoi difetti.

L’Inter, invece, vanta, sul piano nazionale, un curriculum più povero – ha soltanto 18 scudetti – e più ricco su quello internazionale, tre Coppe dei Campioni contro le due della Juventus, tre Coppe Intercontinentali contro le due della Juventus, ma soprattutto il compimento della Gloria nella stagione 2009-2010 con la storica conquista del triplete, mai raggiunto da una squadra italiana, ossia la vittoria, nella stessa stagione, dello scudetto nazionale, della Coppa dei Campioni e della Coppa Italia.

I tifosi dell’Inter sono solo 8 milioni circa, ma si tratta di una minoranza elitaria con una vocazione “universalistica” che va ben al di là del territorio nazionale. L’Inter si caratterizza, infatti, per il progetto degli “Inter Campus”, un messaggio internazionale di civiltà e di progresso in cui possano riconoscersi tutti i bambini poveri dei diversi continenti. Il calcio come veicolo di pace, di fratellanza e solidarietà fra tutti i popoli.

Il vero termine di confronto per l’Inter, insomma, è l’Inter stessa: sfidare in primo luogo se stessa nel conseguimento della perfezione e della gloria.

L’Inter è per la qualità delle vittorie, la Juventus è per la quantità. L’Inter è una squadra problematica con improvvise cadute e rare resurrezioni, la Juventus e la sua dirigenza hanno sempre, invece, pronunciando sentenze inappellabili, certezze assolute.

Il giovane presidente della Juventus, Andrea Agnelli, presume di avere dentro di sé la certezza del diritto, l’unità di misura della colpevolezza e dell’innocenza. L’allenatore Conte è innocente per definizione. Per carità, io che sono per il primato dell’etica e che conosco la fallibilità della giustizia umana, non mi sento di escluderlo; quello che mi spaventa è questa certezza incondizionata, senza possibilità di replica. Il presidente dell’Inter Facchetti, morto di cancro in età prematura, è invece colpevole per definizione, anche se non c’è stato rinvio a giudizio, data la prescrizione dell’eventuale reato, e dunque non vi è stata condanna alcuna.

La disgiunzione tra il potere e la gloria non si esaurirà mai, ma si perpetuerà nei secoli proprio con le stesse cadenze che ho cercato di riassumere sommariamente.

(Elio Matassi)

-----

La scelta di questi pezzi del professor Matassi non è casuale. Li ho scelti perchè, oltre che eccezionalmente espressivi, ricordo quanto piacquero anche a Franco (con cui condivideva anche una passione felina) e quanto ne disquisimmo in merito cercando di capire come e perchè una persona dall'acuta intelligenza e cultura filosofica del prof. Elio Matassi si spingesse a scrivere di questo, in questa maniera passionale e brillante.

E la risposta a cui giungevamo era sempre la stessa: è Interista.

L'ulteriore cosa meravigliosa dell'essere Interisti, è aver ricevuto doni del genere da persone come il Professor* Matassi ed il Giornalista* Bomprezzi. 

Buon juventus - Inter a tutti. 

- Charms -


*mi si conceda di utilizzare la minuscola/maiuscola iniziale in maniera tifosamente, se non anche eticamente, corretta.

giovedì 1 gennaio 2015

"El Negro Jefe" : avete mai sentito parlare del Maracanazo?

Erano anni e anni che volevo avere un blog per pubblicare questo mio racconto. Ora ce l'ho e quale migliore occasione per farlo se non agli albori del 2015? (si certo).
Una storia di 65 anni fa, ma sempre meravigliosa per chi ama questo sport nelle sue sfaccettature più epiche.

Chi è "El Negro Jefe"?

Non è un super eroe... quelli sono personaggi di fantasia.

Obdulio Jacinto Muiños Varela, appunto detto "El Negro Jefe", è un condottiero: è Leonida... è Ettore... è Achille... è mitologia prestata alla realtà.

Anno 1950, partita finale dei mondiali di calcio, siamo a Rio de Janeiro, Brasile, all'interno dello stadio Maracanà (nuovo di pacca, realizzato per l'occasione) 200.000 tifosi pazzi di gioia, di cui il 99,9% brasiliani... e circa un milione di tifosi brasiliani antistadio.

La partita è Brasile - Uruguay

Il Brasile ci arriva seppellendo gli avversari del girone finale: 7 gol alla Svezia... 6 alla Spagna.
L'Uruguay ci arriva con una vittoria di misura ed un pari tiratissimo.

Per vincere la prima edizione Rimet della coppa del mondo, ai carioca, padroni di casa, basta un pari.

Per gli uruguagi sembra non esserci scampo, il destino pare segnato...
I brasiliani, sicuri dell'esito, preparano addittura già medaglie ed orologi celebrativi e sono pronte una limousine a testa con il nome di ogni giocatore.
Loro hanno soprannomi eccezionali: "punta de lanza" Ademir… "o divino mestre" Zizinho… e poi ci sono Friaca… Chico… Jair.

I dirigenti uruguagi sono talmente condizionati dall’ambiente carioca da dire che una sconfitta, con non più di 2 reti di scarto, sarebbe già una vittoria

All'udire queste affermazioni, Varela, gli fa rimangiare le parole mandandoli letteralmente a quel paese… e dicendo che l’Uruguay in quella partita aveva un solo scopo, ed era quello di vincere.

Questo il contorno, poi c’è il campo... e qui inizia la leggenda de "El Negro Jefe".

Centrocampo, stretta di mano tra i Capitani, l’arbitro Reader lancia la monetina e Varela la prende al volo… guarda l’arbitro e dice: "Signor arbitro non si preoccupi, lasci pure scegliere loro... questa sarà la loro unica consolazione perché Noi saremo Campioni del Mondo".
Il capitano brasiliano Augusto se la ride... ma solo perché non ha capito ancora con chi ha a che fare.

Si perchè negli spogliatoi "Jefe" aveva già catechizzato i suoi a suo modo: al centravanti Miguez dice: "ma non lo vedi che faccia ha il loro portiere?... Vuoi farmi credere che ad uno cosi non puoi fare almeno 2 gol?"… A Gambetta (miglior difensore dalla squadra) dice che se solo Chico tocca la palla a fine gara se la sarebbe vista con Lui.... Poi guarda tutti gli altri, da Schiaffino a Ghiggia, ed esclama: "Questo vale per tutti, chi si tira indietro lo prendo a pugni".

E prima di entrare e posizionarsi in campo, uscendo dal tunnel, si gira verso i suoi dicendo di non guardare le tribune... perché la partita si giocava in campo, li sotto.

"Ahora vamos a jugar como hombres. Nunca miren a la tribuna. El partido se juega abajo. Ellos son once y nosotros también. Este partido se gana con los huevos en la punta de los botines" (Varela)

Si comincia, il Brasile come prevedibile attacca a testa bassa... i suoi giocatori giocano pensando che in campo siano da soli.

Joao Ferreira "Bigode", difensore brasiliano, continua a mandare in terra Ghiggia per non farlo ripartire, anche con interventi molto duri. Varela guarda il compagno e lo fulmina, non ha bisogno nemmeno di parlare... Da quel momento tra Bigode e Ghiggia comincia un duello senza esclusione di colpi "bassi".

Zizinho, l'artista, punta "el mono" Gambetta, lo ubriaca di finte irridendolo e facendogli fare una pessima figura. Capitan Varela si avvicina al compagno mostradogli i pugni ed urlando...
Nell’azione successiva Gambetta manda letteralmente all’aria Zizinho... ed avvicinandosi gentilmente, come se volesse aiutarlo ad alzarsi, gli sussurra "la proxima vez te mato"...
Zizinho non avrà più la forza mentale di puntare Gambetta, per tutta la partita.

"Un giocatore cosi pauroso non può essere campione del mondo" (Varela)

Contro ogni pronostico gi uruguagi tengono, ed il primo vero pericolo del primo tempo è loro, con un clamoroso tiro di Miguez che si schianta sul palo, al termine di una azione di contropiede.

Questo segnale sarà fatalmente sottovalutato dai brasiliani e dopo un salvataggio miracoloso di Gambetta sulla linea di porta, incredibilmente il primo tempo si chiude sullo 0 a 0.

Rientrati negli spogliatoi "El Jefe" non è affatto contento dell’attegiamento dei suoi, soprattutto di quelli che devono fare la differenza... e non ci mette molto a dimostrarlo.

Come poteva convincere i suoi a dare tutto? Ovviamente dando l'esempio con il giocatore più rappresentativo... la stella.
Allora prende per il bavero Schiaffino (si proprio quello) e lo appende alla parete dello spogliatoio, gli rifila due sonori ceffoni e gli dice che se lui avesse continuato a fare la "signorina" la sua squadra non avrebbe mai vinto.

Si torna in campo e apparentemente la mossa non sembra servire... passano 120 secondi e Friaca porta in vantaggio il Brasile.

E’ delirio puro. I 200 mila sugli spalti fanno tremare la terra... un unico - boato - assordante… uno tsunami che avrebbe travolto qualsiasi cosa... una folgore che attraversa da capo a piedi i giocatori uruguagi.

Tutto sembrava presagire, come da pronostico, la solenne disfatta uruguagia.

E qui entrano in azione i "Cocones de Hierro", l' astuzia e l'esperienza di Obdulio Varela.
Va a prendere la palla in rete, se la mette sotto braccio... e per portarla a centrocampo ci impiega più di 3 minuti... fingendo proteste, chiamando un interprete, fermandosi a legare la scarpa.

Tutto questo aveva un solo scopo: quello di arginare come una immensa diga lo slancio emotivo dei brasiliani in campo e sugli spalti, che li avrebbe di sicuro travolti.
Ed invece quel capitano genio e pazzo riesce a stemperare l’ambiente, sbigottisce il pubblico che lo insulta, fa rifiatare i suoi ed innervosisce a livelli incredibili gli avversari che hanno l'esigenza di stravincere, di seppellirli di goal.

Ma la sua strategia psicologica non è finita...

Arrivato con comodo a centrocampo, posa la palla al centro, guarda l'immenso pubblico, sfidandolo... poi guarda i giocatori brasiliani schierati e dice: "Vinciamo Noi"

I brasiliani, sfidati, si inferociscono... e riprendono ad attaccare come pazzi, cadendo nella sua trappola mentale.

Passano venti minuti, contrasto duro a centrocampo, l’arbitro inglese fa proseguire, il Brasile è tutto sbilanciato... Varela prende palla e lancia Ghiggia che brucia Bigode… va sul fondo, mette la palla al centro... c'è Schiaffino (proprio lui) incredibilmente solo... controlla - destro - rete... 1 a 1.

Un brivido glaciale attraversa il Brasile, squadra.
In un altro momento, un altra partita, un altro luogo, non ci sarebbe stato nessun problema... il pari bastava... ma non in quel momento, non in quella partita, non in quel luogo.
I carioca non possono sopportare quel risultato dopo tutti i proclami fatti, si sentono derisi… ed allora ripartono a testa bassa azzerando ogni tatticismo ed andando esattamente incontro a quello che voleva Varela.

Minuto 79, minuto che segnerà la storia, non solo calcistica, di una nazione.

Forcing brasiliano e Ghiggia, ancora lui, parte palla al piede come una scheggia, arriva quasi sul fondo. Bigode, distrutto dal suo avversario nel secondo tempo, per paura di essere saltato, và in chiusura senza affondare… Barbosa, il portiere, memore del primo gol, commette un errore fatale, si sposta per anticipare il cross verso Schiaffino... E lui: Alcides Edgardo Ghiggia, lo fulmina con un tiro sul primo palo.

"Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa ed io" (Ghiggia)

Ed è una affermazione riduttiva, si perché il Maracanà non solo zittisce, ma precipita in piena disperazione... che da li a 10 minuti si trasformerà in tragedia.

L'Uruguay è in vantaggio e Capitan Varela, ottenuto quello che voleva, come un ossesso urla ed incita i suoi di non mollare un centimetro. Si dice che le urla si sentirono addirittura fuori dallo stadio.
Si gioca ad una porta sola e come se non bastasse, Maspoli, il portiere, compie parate miracolose a ripetizione.

L'arbitro Reader fischia la fine... l’Uruguay di Varela è, incredibilmente, campione del Mondo.

L’imbarazzo fu tale (per una decina di minuti sparì addirittura la coppa) che Rimet venne abbandonato da solo in campo, a consegnare la coppa a Varela... e non ci fu cerimoniale.

"Mi ritrovai solo, con la coppa fra le braccia, senza sapere che cosa fare», racconterà in seguito. «Alla fine scorsi il capitano uruguagio e gliela consegnai quasi di nascosto. Gli strinsi la mano senza dire una parola" (Rimet)

Il gigantesco sambodromo di Rio si era trasformato in un gigantesco lutto.

Non si contano gli attacchi di cuore sugli spalti del Maracanà.
Il Brasile paese fu sconvolto, funestato da suicidi per la disperazione. Le ambulanze andarono in giro per tutta notte.
L'afflizione raggiunse livelli inarrivabili, insopportabili.
Al punto che quel giorno, 16 luglio 1950, sarà ricordato per sempre con due nomi: "Maracanazo" e "Nunca mais" (Mai più).

Barbosa (il portiere) sarà condannato a non frequentare mai più l’ambiente calcistico brasiliano a tutti i livelli.

"Da noi, la pena più severa per un crimine è trent’anni di galera. Io da quarantatré anni pago per un crimine che non ho commesso" (Barbosa)

La nazionale Brasiliana non avrà più tra i pali un portiere di colore fino ai giorni nostri (Dida).
La maglia bianca sarà maledetta e da allora si passerà a quella con i colori del paese (Verde e Oro).

Dentro la tragedia, un uomo, "El Negro Jefe"... che rimarrà in Brasile a Rio quella notte, al contrario di molti suoi compagni. Rimase a Rio con il massaggiatore, girando per i bar, assieme agli sconfitti, ed incredibilmente consolandoli. Si perchè si renderà conto di quello che è successo, della tragedia immane scatenata. Al punto che festeggerà con il cuore a pezzi per quello che vide.

"Non mi piacque vedere 200.000 persone tristi, non mi piacque vedere Rio cupa e senza carnevale. Ero campione del mondo ma non sentivo la piena felicità per la cosa. Chi non c'era non potra mai capire" (Varela).

"Il proprietario del bar si è avvicinato a noi insieme ad un tizio grande e grosso che piangeva. Gli ha detto: - Lo sa chi è questo qui? E’ Obdulio - . Io ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: - Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce? - Come potevo dirgli di no? Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all’altro" (Varela)

Come spesso succede, nelle grandi vittorie ci sono grandi sciacalli, molto spesso sempre gli stessi.

La federazione uruguagia si prese tutti i meriti e si intasco tutti i premi. 

"Se dovessi giocare di nuovo quella partita, mi segnerei un gol contro. L'unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo il titolo è stato di far felici i dirigenti della Federazione uruguaiana che si fecero consegnare le medaglie d'oro e a noi giocatori ne diedero altre d'argento. Questo è stato il riconoscimento". Disse anni dopo Varela.

Al di la di questo... Obdulio Varela fu davvero un autentico condottiero uruguaiano e le statistiche sono li a confermarlo: con lui in campo l’Uruguay non ha mai perso nemmeno una gara.

Questo è un capitolo di storia del calcio che incorona uno dei suoi personaggi.
Memorabile interprete di quelli che sono valori che vanno al di la del semplice sport.

Questo è un capitolo, probabilmente il più importante, della storia calcistica di Obdulio "El Negro Jefe" Varela.

 "Non prendiamoci in giro: l'avessimo giocata cento volte, una sola l'avremmo vinta: questa. Il calcio migliore lo giocano sempre i brasiliani". (Varela)



"Con la Celeste en el pecho somos doble hombres"