mercoledì 15 gennaio 2014

Just like a rolling stone

And he carries the reminders 
 of ev'ry glove that layed him down 
or cut him till he cried out
 In his anger and his shame
"I am leaving, I am leaving"
 but the fighter still remains(The Boxer)
(E lui porta con sé i ricordi
di ogni guantone che l’ha buttato al tappeto
o ferito fino a farlo gridare
con la sua rabbia e la sua vergogna
"Adesso abbandono, abbandono!"
ma il lottatore rimane ancora lì)




Mi piace ascoltare la cronaca di una partita quando la seconda voce è quella di Lele Adani.
Apprezzo la competenza di un ex giocatore scevra dalla banalità o dai timori reverenziali spesso caratteristici di altri suoi colleghi.
Non cammina sulle uova come Beppe Bergomi che, nell'utopico tentativo paraveltroniano di scontentare nessuno, riesce a scontentare tutti. Non si inerpica lungo le disquisizioni caliginose di Ilario Castagner e non si accoda tautologicamente alla prima voce come Luca Marchegiani.
Lele Adani interloquisce con cognizione di causa palesando spesso una conoscenza superiore dell'argomento rispetto al preconcetto indicante un ex calciatore come un incompetente globale.
Secondo me a Lele Adani piace il calcio. O almeno, così pare lasciar trasparire.
Me lo immagino mentre si ritrova con gli amici ai giardinetti per tirare quattro calci al pallone, oppure ritardare di cinque minuti l'uscita dal bar, dopo aver pagato il caffè, per scoprire se quell'azione baluginante dallo schermo finirà con un gol o si spegnerà mestamente contro i tabelloni pubblicitari.
Trovo perfino gradevole quel suo accento che odora di provincia rurale e di nebbia mattutina, la cui cadenza dipinge inconsapevolmente il profilo di una città sospesa fra passato, presente e incerto futuro, fra una campagna semispogliata e capannoni industriali simili a astronavi abbandonate da antiche civiltà.


C'è però un'associazione mentale inconscia che mi porta a non cambiare subito canale quando mi imbatto in una telecronaca di Lele Adani.
Perché, bruscamente, davanti agli occhi prende vita un Lele Adani di dieci anni più giovane, immobile, iconico, con le braccia levate in alto e le pupille rovesciate al cielo, cristallizzato in quel momento rarefatto come un respiro, un attimo prima di venire sommerso dagli abbracci dei compagni.
E ripenso alla partita.
A “Quella” partita.


Mi ha sempre reso scettica l'esaltazione della “Sconfitta”, soprattutto riferita alla propria squadra.
Perdere è irritante, sia in prima che per interposta persona, per questo guardo con diffidenza all'entusiastica esaltazione dell'epica degli sconfitti. Mi è sempre parso di scorgervi un'indulgenza autoconsolatoria volta a condonare le mancanze rispetto al vincente.
L'Inter per me è “Cosa viva” e per coloro che amo desidero sempre il meglio. E il meglio, solitamente, si incarna nella vittoria.
Tendo quindi ad allontanare le memorie dei fallimenti per rivolgermi verso il piacere delle conquiste.

Eppure esistono alcune sconfitte che, nel modo in cui sono state combattute, raggiungono la dignità di una vittoria.
Il ritorno di Inter-Juve semifinale di Coppa Italia, anno 2004, è una di queste.


L'andata a Torino era terminata 2-2 e, sull'appressarsi del ritorno, sono accaduti vari eventi che forniscono ulteriori elementi bellici ad un incontro già ammantato di rivalità. La Juve in campionato perde a Roma inaspettatamente e vede il Milan arroccarsi sulla cima della classifica, mentre l'Inter, ancora sbigottita per l'eliminazione in Champions subita a conclusione del 2003, veleggia senza più l'obiettivo scudetto.
La Coppa Italia, competizione sovente dimessa, assume la valenza di trofeo che può migliorare una mediocre stagione.
Nessuna delle due dunque ha intenzione di recedere dall'intento di pervenire in finale.


San Siro, quella sera, indossa la veste migliore, quella riservata alle partite di cartello in campionato.
Oltre 60.000 spettatori, in maggioranza interisti, sebbene la presenza bianconera sia rilevante, come accade in qualsiasi stadio d'Italia la Juve si trovi ad transitare.
Inter-Juve per gli interisti è La Partita, quella dove l'odio sportivo può fluire senza argini e i rancori pulsano come ferite fresche.
La Juventus, emanazione della “reale” monarchia italiana, incarna l'alterigia dell'autorità e arroga su di sé l'odio misto al timore che si riserva sempre alle manifestazioni del potere.
Non possiede la storia, a volte epica e a volte arruffona, del Milan, la rivale di un derby in cui i tifosi, come in un gioco di specchi, reputano l'una il Doppelgänger dell'altra, quasi a sancire un inconsapevole legame sempre negato e aborrito.
La partita con la Juve, per ogni interista, è quella che dovrebbe essere affrontata come una battaglia, fino all'ultima stilla di sudore. Le aspirazioni dei tifosi però raramente coincidono con le prestazioni dei calciatori in campo, generando quindi altre frustrazioni oltre a quelle subite per lo spurio risultato sportivo.
La designazione arbitrale, Pellegrino da Barcellona Pozzo di Gotto, provoca malumori dalla parte interista , a cui risponde un distaccato sarcasmo da parte juventina. “I consueti piagnistei degli interisti”.
Anni dopo l'arbitro Pellegrino sarebbe andato ingrossare l'organico societario del Messina, società satellite dell'universo moggiano per poi scomparire completamente dopo l'indesiderata notorietà riacquistata durante lo scandalo Calciopoli.

L'Inter, allenata da Zaccheroni, aggredisce l'incontro quasi a voler assecondare i desideri dei sostenitori.
Poco oltre il quinto minuto Adriano, non ancora risucchiato dall'onda suoi demoni, accoglie un lancio di Stankovic, si svincola da Le Grottaglie e, disorientando il portiere Chimenti, colloca il pallone sul fondo della rete.
I tifosi erompono in un urlo di gioia.
Per il gol, segnato da un giocatore che sentono come loro e che potrebbe rappresentare la rinascita e la nemesi di quel Ronaldo la cui dipartita li ha feriti con gli spasimi che solo i grandi amori portano in sé.
Per essere stato segnato proprio alla Juve, in una competizione improvvisamente scopertasi fondamentale.
E per l'atteggiamento mentale della squadra, finalmente pugnace e battagliero, a seguito di varie esibizioni vacue al limite dell'inconsistenza.
Una manciata di minuti più tardi Cannavaro deve uscire a causa di un fastidio muscolare e in questo infortuno sembra palesarsi un proposito del destino.
In una serata come questa la presenza di ominicchi è mal sopportata.
L'ingresso di Van Der Meyde all'ala destra spinge Helveg qualche metro indietro sulla linea dei terzini, fra i primi borbottii degli astanti che valutano con preoccupazione una linea difensiva composta dal laterale danese ex milanista, pupillo di Zaccheroni ,raramente convincente in nerazzurro e Lele Adani, difensore italianissimo nella sua interpretazione del ruolo.

Eppure, nemmeno fosse stato tutto pianificato da uno sceneggiatore particolarmente fantasioso, ogni tassello inizia a posizionarsi esattamente al posto giusto e i malumori per alcune decisioni arbitrali valutate negativamente dai nerazzurri fino alla repentina scossa seguita al gol del pareggio segnato da Tudor divengono il proscenio per la messa in scena della partita sognata da ogni tifoso nerazzurro.
Gli uomini in campo non protestano istericamente, come avvenuto troppo sovente in passato e non cedono allo sconforto per la percezione di uno sbilanciato metro arbitrale.
Reagiscono moltiplicando le energie e incarnando sorprendentemente il desiderio di ogni appassionato: vederli lottare come tifosi.
Dalla contesa sboccia l'impensabile: i topini di Cenerentola si trasformano in fieri destrieri dalla nivea criniera e la classe operaia va in paradiso.
Helveg, lo scandinavo sfuggente e rigido come il suo idioma senza vocali e Adani, il discreto difensore di provincia dai lineamenti di indiano metropolitano si elevano a guida per i compagni, comandandoli con adamantina fermezza.

Lele Adani diviene l'epicentro stesso della difesa, sorretto dalla stessa fideistica determinazione che muove il bambino più gracile ritrovatosi a protegge la bandiera della sua compagine quando i suoi amici più robusti e atletici son stati eliminati.
Helveg incassa la testa fra le spalle e corre, trasponendosi da una fascia all'altra e strappando palloni dalle gambe avversarie. Si precipita in avanti ad assistere gli attacchi caotici dei compagni per poi arretrare repentinamente in soccorso delle mancanze della difesa.
Quando Cordoba, in balia della sua veemenza, viene forzato ad accomiatarsi anzitempo con un cartellino rosso, Zaccheroni può mutare nuovamente le sembianze della squadra appoggiandosi all'abnegazione del suo pupillo.
Zanetti scala come terzino ed Helveg, per la prima volta in carriera, si separa dalla consueta quotidianità della fascia per migrare verso il centro della difesa, appressandosi a Lele Adani, perchè la solitudine dell'area di rigore è troppo gravosa perfino per lui, questa sera.

Nel Vangelo è narrata una parabola relativa a un vignaiolo, accordatosi con alcuni lavoranti per un soldo di paga in cambio dell'attività fra i filari.
Durante il trascorrere della giornata si imbatte in altri uomini desiderosi di lavorare, li conduce man mano alla sua vigna finchè, al tramonto, a ognuno di loro riserva lo stesso pagamento.
Un soldo.
Per quelli che hanno lavorato dal mattino, per quelli che hanno faticato sotto il sole del pomeriggio e per gli ultimi affaccendati nell'ultima ora prima del crepuscolo.
Rammentando questa partita il pensiero mi va a questa parabola e ai vari giocatori che hanno vestito la casacca nerazzurra per tanti anni, senza che la loro reiterata presenza abbia depositato poco più di un pallido alone nella mia memoria.
Beppe Bergomi ha militato nell'Inter per oltre vent'anni, avviandosi nelle giovanili e terminando la carriera come capitano eppure, per me, una partita come quella di Lele Adani ed Helveg quella sera non l'ha mai giocata.
Mi dispiace Zio: la riconoscenza non è di questo mondo, lo sai anche tu.

Quando Del Piero, il 10 juventino che ha nei piedi l'apogeo del suo talento, scaglia di testa in rete la palla del vantaggio, sfruttando un corner di Miccoli, molti interisti si convincono che gli intenti del Fato perseguano una costernata monotonia.
La Juve stessa, memore delle situazioni passate, si adagia sulla consapevolezza del ritenersi sempre la più forte e attende la capitolazione di un'Inter fiaccata nel morale e prostrata dalla fatica.
I nerazzurri convogliano le forze per scagliarsi all'attacco, ma i bianconeri palesano una rocciosa saldezza, coadiuvati involontariamente da un arbitraggio che dimostra di non essere in grado di gestire le emozioni che attraversano il campo come scariche elettriche durante un temporale.

I 5 minuti di recupero paiono il proemio dell'affermazione juventina, corredata dalle cicliche polemiche sulla sua ascendenza sulla classe arbitrale.
Ogni innamorato dei colori neroazzurri indugia lungo gli attimi che lo separano dal fischio finale, acquiescente verso una sconfitta che pare abbozzarsi all'estremità di quella partita.
Si consola persuadendosi che i giocatori hanno realmente dato tutto e non vi siano possibilità di sfuggire alle disposizioni del Destino.

Lele Adani però sente di non aver dato tutto. Percepisce in sè ancora una stilla di vigore e di volerlo utilizzare fino all'acme delle sue capacità.
Lele Adani erompe imprevedibilmente dalla difesa, come un soldato da una fangosa trincea, animato dalla rivelazione di avere più niente da perdere e nulla da proteggere e “When you ain't got nothing, you got nothing to lose”.
Sull'increspatura dell'ultimo secondo della partita, Lele Adani scaraventa nella porta di Chimenti il pallone appena ribattuto ad Emre.
San Siro esplode nell'urlo selvaggio di migliaia di voci congiunte in una sola e Lele Adani leva le braccia al cielo, quasi a voler offrire quel grido a qualche lontana divinità.


Chissà se ogni tanto anche Lele Adani ricorda quella partita...



***
Poichè le partite “Vere” non sono film hollywodiani, questo incontro terminò con il passaggio del turno della juve, dopo il pareggio ai supplementari e lo sbaglio ai rigori di Christian Vieri.
Sì, lo stesso Vieri che, anni dopo, si sarebbe qualificato come “Da sempre tifoso della juve”.

Non temere Bobo, ce ne eravamo accorti anche noi quando giocavi nell'Inter

Nessun commento:

Posta un commento