martedì 11 febbraio 2014

Uolter Mazzarri - il meglio del meglio del meglio deve ancora venire - Autobiografia -Parte I


Sono nato a San Vincenzo, in provincia di Livorno, il primo giorno di ottobre del 1961.

Considerato che i miei genitori non erano né belli, né intelligenti né fisicamente dotati, direi che ho fatto un’infanzia che nemmeno Guardiola.
Sono nato lo stesso anno di Lothar Matthaus, non ho avuto una carriera brillante come il tedesco, ma a parità di mezzi, credo avrei vinto il doppio di palloni d’oro. Invece, essendo io imbecille, ho predicato calcio nell’Empoli. Quell’Empoli cui però si ispirava Lobanowski per la sua Dinamo Kiev.
Se ‘il colonnello’ volesse, prenderei volentieri un caffè con lui, spiegandogli i segreti del mio calcio, confrontandomi da pari a pari. Come dite? È morto? Beh, quindi è chiaramente colpa sua se non si fa l’incontro, si sappia.

Nel novembre del 1963 avevo solo due anni, ma avrei saputo bene come consigliare la c.i.a sullo scarico di responsabilità su Lee Oswald. Non essendo figlio di Umberto Eco e Dacia Maraini e non avendo Nando Martellini come precettore alla scuola materna, a quattro anni ancora non ero in grado di parlare, però riuscivo sempre a scaricare la colpa delle mi marachelle ai cugini, solo utilizzando le espressioni facciali.
Il prete della parrocchia, Don Calcio, mi diceva sempre: “figliolo, te adesso non parli perché ti tieni il fiato, un giorno imparerai a parlare, e allora, deh, non finirai più di dire minchiate!”

Non mi piace esagerare con gli aneddoti, però ricordo bene che mentre disponevo a tre le formine in spiaggia, nell’estate del 1966, da dietro un cespuglio comparve Puskas a braccetto di Gesù Cristo, in quel periodo in vacanza all’Elba, e mi disse: “figliolo, il calcio troverà in te un tecnico formidabile”. Dopo essersi fatto fare un autografo (la celebre ‘X’ che utilizzo tuttora come firma) mi salutò, io non risposi ma subito dopo andai a raccontare tutto al babbo che avevo fatto le forme di sabbia. Lui mi disse: “deh, figliolo, qua è tutto pieno di sabbia, è una spiaggia…” E io risposi: “Sì, babbo, ma io avevo messo pupù di cane nelle formine”. Un cane sentì e mi pisciò addosso, evidentemente per riconoscenza.

Nel 1969 assistetti, in un bar sulla spiaggia, allo sbarco sulla luna, non ero d’accordo sul fatto che il modulo lunare avesse quattro appoggi, per me erano tre.
Nel 1979, a 18 anni, ero chitarrista solista nei Kool & The Gang. Fu in quella band, a Piombino, che conobbi Rolando. Mi ricordai di lui anni dopo, quando presi il napoli in C2 e lo portai a trionfare in Ciampio’. Composi un fanchi incredibile, utilizzando materiale scadente, una chitarra a 3 corde, un block notes già scritto e un lapis spuntato. Il pezzo capitò per caso sulla scrivania di un dj di una radio indipendente milanese, e fu trasmesso in un giorno di primavera del 1980.
 Sempre che non voglio esagerare co’ gli aneddoti esagerati che poi pare che esagero a esagerare, ma ricordo che mi chiamò tal Marconi e si disse entusiasto del pezzo, così come pure i suoi due soci, tali Forneria e Premiata. ‘Sti musicisti lavorano sempre in tre, è un segno del destino…, un marchio di fabbrica degli artisti, un po’ come Earth che lavora con Wind e Fire, o i tre fratelli Wet, o Crosby, Nash e Stills, o i celebri Emerson, Lake e Palmer, già preparatori atletici del Suothampton. Sempre e comunque in tre…

A parte poi che non ho mai parlato di arbitri e non è vero che mi lamento, mi è appena andata via la corrente è si è cancellato tutto, maremma hane. No, in questo caso non conta che non ho pagato la bolletta.

Un’emorroide con poco senso dell’opportunità mi impedì di essere convocato da Bearz Hot per i mondiali in Spagna, dove lui stesso mi confermò di aver pensato di impostarmi come regista al posto di Antonioni, cui mancava ancora un po’ di lucidità per via del tete à tete con Silvano Martina.
L’anno dopo ero lì per farmi la Kelly le Brock, in una trattoria a Cecina, ma mi venne il mal di denti e persi questa possibilità.

A metà anni ’80 s’usava d’andare co’ gli amici a mignotte ad Amsterdam, nel 1986 fui invitato formalmente da Rinus Michels, che credo sia quello che ha inventato l’aerosol, a uno stage alla scuola dell’Ajax. Vidi un biondino tutto pepe, ma scarso co’ piedi. Gli dissi: “deh, biondino, te lo sa che co’ piedi fai hahare? Però c’hai carattere, se mi dai retta diventi un campione”. Quel biondino era Dennis Bergkamp, mi chiama ancora adesso per ringraziarmi. In verità non capisco una sega d’olandese, ma è sicuro che sono complimenti.

Fu nel 1987 che ebbi un incontro, seppur ‘virtuale’ che cambiò la mia vita da tecnico del calcio. Ancora giocavo, ma ero avido di cultura, di crescere, conoscere. Dovendo fare scelte drastiche, a un seminario su “estetica di Schopenhauer nel gioco di Happel” ricordo che dovetti preferire, per esigenze di orario, la visione di drive in. Inutile dirvi che apprezzai l’intervento tecnico di tre allenatori napoletani della scuola zonista di Luis ‘o Lione’ Vinicio e di “Petisso” Pesaola: i famigerati Trettré. Ho ancora una loro foto con dedica “A Uolte, chiagne e fotte!”. Io gli diedi la mia, a ciascuno di loro, tutte con la X. Dopo quel giorno non li vidi più in tv.

Che poi mica è vero che mi lamento sempre, a parte che Bill Gheits mi ha fatto cannare l’impaginatura. Ma il 1987 fu soprattutto l’anno in cui Gorbaciov conobbe me, l’ha ricordato recentemente lo stesso ex zar, nella sua autobiografia, scritta a quattro mani (no, scusate, a tre mani,) con il giornalista Alciatov, celebre firma dello Zerbinov, il quotidiano sportivo coi peli sulla lingua.

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